Approfondimenti
Al centro dell’imponente camino, Vasari raffigura il suo autoritratto affiancato dagli stemmi della sua famiglia e della moglie Nicolosa Bacci. Sulla sinistra, è rappresentato un giovinetto inginocchiato, che alla luce di una lanterna, ripassa sulla parete la sua ombra. Vasari stesso offre la spiegazione di questa scena nel proemio alle “Vite” dove un lungo passaggio è dedicato alla questione dell’origine dell’arte. Facendo riferimento a Plinio, autore latino della “Naturalis historiae”, Vasari racconta la storia di Gige. Seduto al focolare, questo giovane originario della Lidia, osserva la sua ombra e mosso dalla curiosità la riproduce sulla parete con un pezzo di carbone. Secondo l’interpretazione di Vasari, Gige sarebbe quindi stato il primo artista, e all’origine dell’arte vi sarebbe un autoritratto, concepito per motivi puramente narcisistici.
Giorgio Vasari (Arezzo, 30 Luglio 1511 – Firenze, 27 Giugno 1574) nasce ad Arezzo, da Antonio Vasari e Maddalena Tacci. Pittore e architetto, esponente di una pittura eclettica che segna il passaggio alla stagione manieristica. Vasari è ricordato primariamente come scrittore e storico per aver raccolto e descritto con grande cura le biografie degli artisti del suo tempo.
Inizia il suo percorso artistico nella bottega del francese Guglielmo Marcillat, pittore e autore dei cartoni delle vetrate del Duomo di Arezzo. Nel 1524 si reca a Firenze, dove frequenta la bottega di Andrea del Sarto e l’accademia di disegno di Baccio Bandinelli. Ritorna ad Arezzo dopo tre anni, nel 1527, dove incontra il Rosso Fiorentino.
Insieme a Francesco Salviati, nel 1529 Giorgio Vasari lavora nella bottega di Raffaello da Brescia; in seguito si dedica anche all’arte orafa presso Vittore Ghiberti. Poco dopo, chiamato e protetto dal cardinale Ippolito de’ Medici, Vasari parte per Roma dove, con l’amico Salviati, condivide lo studio dei grandi testi figurativi della maniera moderna.
Negli anni dal 1536 al 1539 viaggia tra Roma, Firenze, Arezzo e Venezia, dipingendo varie opere, tra cui ricordiamo il ritratto del Duca Alessandro de’ Medici, una Natività per l’eremo di Camaldoli e l’Allegoria dell’Immacolata Concezione per la chiesa di S.Apostoli a Firenze.
Rientrato poi ad Arezzo intraprende la decorazione pittorica della sua casa. Nel periodo che va dal 1542 al 1544 divide la sua attività fra Roma e Firenze; la sua produzione di pale di altare si fa sempre più intensa, e va sempre più definendosi il suo linguaggio figurativo.
Nel 1550 esce la prima edizione dell’opera a cui è più legata la fama del Vasari: “Trattato delle vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’tempi nostri”, in cui Vasari riordina tutto il materiale e le notizie raccolte dal 1540 sulla vita e sulle opere degli artisti.
E’ in questo periodo che Giorgio Vasari conosce Michelangelo, il quale gli consiglia “lo studio delle cose di architettura”. Dopo qualche anno Vasari si sposta di nuovo a Roma, per lavorare presso Papa Giulio III, che gli affida, insieme all’Ammannati, la decorazione della cappella con la tomba del cardinale Antonio del Monte, a San Pietro in Montorio. Continua a lavorare a questo progetto fino al 1553
mantenendo uno stretto rapporto con Michelangelo.
Nel 1554 torna di nuovo ad Arezzo, chiamato a progettare il coro del Duomo. Si trasferisce con la famiglia a Firenze, su invito del duca Cosimo I de’ Medici, che finalmente lo assume stabilmente al suo servizio.
Inizia così un periodo prolungato nella dimora fiorentina, durante il quale Vasari rivede una posizione egemone nell’ambito artistico della città.
Nel 1555 Cosimo I gli affida i lavori di ristrutturazione e di decorazione di Palazzo Vecchio, che vuole trasformare in residenza principesca. Successivamente gli affida la fabbrica di Palazzo degli Uffizi. L’opera verrà compiuta nel 1580, solo dopo la sua morte. Sospesi i lavori nel 1556, Vasari intraprende un viaggio in Italia, al fine di raccogliere ulteriori informazioni seconda stesura delle “Vite”, che ultimerà nel 1568. La nuova edizione, accresciuta, è considerata la prima storia critica della pittura italica oltre che fonte documentaria ancora oggi indispensabile per oggettività e onestà di giudizi, nonchè di chiarezza espositiva. Mentre la prima edizione risulta più compatta, più vivace ed entusiastica nel succedersi delle tre “età” (da Cimabue a Buonarroti), la seconda edizione è più ampia, interessata da un ripensamento critico e da una maggiore problematicità nella parte dedicata ai contemporanei. Attraverso una serie di vivaci biografie, Vasari sottolinea come gli artisti della sua regione, la Toscana, sono riusciti gradualmente a rinverdire la straordinaria stagione dell’arte classica.
Del 1563 è l’ inizio degli affreschi nella volta del Salone di Cinquecento di Palazzo Vecchio, la cui decorazione sarà la più grandiosa del palazzo. Nel 1565 gli verrà affidato l’incarico del cosiddetto Corridoio vasariano, che congiunge gli Uffizi a Palazzo Vecchio attraverso l’antico Ponte Vecchio.
Nel 1570 torna a Roma chiamato da Pio V, dove in soli otto mesi dipinge tre cappelle in Vaticano: la Cappella di San Michele, San Pietro Martire e Santo Stefano; contemporaneamente avvia la decorazione della Sala Regia.
Alla morte del pontefice, Vasari torna a Firenze dove, dopo una lavorazione quasi decennale, conclude la decorazione del Salone dei Cinquecento. Gli viene successivamente affidato l’incarico di affrescare la volta della cupola Brunelleschiana di Santa Maria del Fiore, con un Giudizio Finale.
Dopo pochi mesi è richiamato a Roma da papa Gregorio XIII per proseguire la decorazione della Sala Regia.
Nel 1573, a Roma, mentre lavora all’ultimo incarico, prepara i disegni per la Cupola del Duomo fiorentino. In aprile rientra a Firenze, dove viene inaugurato lo studiolo di Francesco I, di cui aveva iniziato la decorativa. Iniziano i lavori per le logge aretine, su suo disegno.
Giorgio Vasari muore a Firenze il 27 giugno 1574. La sua casa di Arezzo e di Firenze, sono oggi un museo a lui dedicato.
Fonte: http://biografieonline.it/foto-di.htm?n=Giorgio+Vasari
Perin del Vega (Firenze, 23 Giugno 1501 – Roma, 19 Ottobre 1547), o Vaga, e a volte Perino, è il soprannome di un manierista italiano, Piero (o Pietro) Buonaccorsi. Il suo stile è conosciuto per la sua dinamicità e per la sua eleganza. I suoi dipinti sono considerati importanti per la mediazione tra la tradizione romana raffaellesca e l’emergere del Manierismo fiorentino; egli mescola la maniera di Raffaello (1483-1520) e quella del fiorentino Andrea del Sarto (1486-1531). Già durante il corso della sua vita, molte delle sue opere sono state la base per delle incisioni.
La sua prima formazione fu come speziale (farmacista), ma passò presto nelle mani di un mediocre pittore, Andrea da Ceri, e, all’età di undici anni, in quelle del più abile Ridolfo Ghirlandaio (1483-1561), figlio di Domenico Ghirlandaio. Divenne uno degli alunni più dotati di Ghirlandaio, ma passò poi a un altro pittore, il modesto Vaga, per raggiungere il quale si spostò a Roma. Nel primo periodo romano era estremamente povero e senza una chiara prospettiva al di là del viaggio di lavoro come decoratore. Venne raccomandato per alcuni lavori come sottoposto di Raffaello, in Vaticano. Fu poi assistente di Giovanni da Udine (1487-1564), allievo e a sua volta assistente di Raffaello, nelle decorazioni a stucco e arabeschi per le Logge Vaticane, ed eseguì alcuni piccoli, ma finemente composti, soggetti dalle Scritture, che fanno parte della cosiddetta Bibbia di Raffaello.
Il suo lavoro per Raffaello fu molto apprezzato, ed egli realizzò anche, su disegni del maestro, figure di pianeti nella grande sala dell’Appartamento Borgia, guadagnandosi il ruolo di assistente maggiore, secondo solo a Giulio Romano (1499-1546). Tra le sue opere individuali a Roma, ricordiamo la sala di Palazzo Baldassini, un edificio nobiliare nel centro della città. La sua Giustizia di Seleuco, ora agli Uffizi, venne rimossa da qui, insieme all’affresco Tarquinio Prisco fonda il tempio di Giove. Esisteva anche una sua Pietà, nella chiesa di Santo Stefano del Cacco. Dopo la morte di Raffaello, nel 1520, e la peste del 1523, Del Vega ritornò probabilmente a Firenze, dove strinse amicizia con Rosso Fiorentino (1494-1540), e realizzò il cartone preparatorio per il Martirio dei diecimila.
Il suo lavoro venne richiesto da Andrea Doria (1466-1560), ammiraglio genovese, per il Palazzo di Fassolo a Genova, poi Palazzo del Principe di Genova. Tra le sue principali opere di questo periodo, La lotta fra dei e giganti, Orazio Coclite difende il ponte, La fortezza di Muzio Scevola e il perduto Il naufragio di Enea. Si spostò anche a Pisa, dove lavorò al duomo. Un anno dopo tornò a Roma, e affrescò la cappella Pucci a Trinità dei Monti, per papa Paolo III (1468-1549). Ritoccò molte delle opere di Raffaello presenti in città. Dipinse le decorazioni per la Cappella Paolina e per altre sale di Castel Sant’Angelo, gli affreschi per la chiesa di San Marcello, un monocromo per la Stanza della Signatura in Vaticano, e un cartone preparatorio per la Cappella Sistina. Del Vega fu incaricato delle decorazioni generali della Sala Reale, iniziata per Paolo III, quando morì, nel 1547. Il suo lavoro a Castel Sant’Angelo venne portato avanti dal suo allievo Pellegrino Tibaldi (1527-1596).
Fonte: Testo riadattato da www.wikipedia.org, disponibile in GNU Free Documentation License
Giulio Romano (Roma, 1499 – Mantova, 1546) è considerato un importante esponente del Rinascimento e del Manierismo. Anche da giovane, dato il suo versatile talento, fu un allievo di spicco, tanto che divenne uno dei principali collaboratori di Raffaello Sanzio.
Giulio aiutò il celebre urbinate anche nelle grandi committenze come la decorazione in Vaticano (affreschi delle Logge e delle Stanze) e nella villa Farnesina. Elementi che portano all’autografia dell’artista in esame, dati gli articolati rapporti stilistici nei lavori di bottega, risultano insufficienti ad intercettare i singoli apporti in tali stesure: esiste infatti un insieme di opere realizzate da Raffaello – quelle in collaborazione con i suoi allievi – di dubbia assegnazione, tra le quali si ricorda il “Ritratto di Dona Isabel de Requesens”.
Alla prematura morte del Sanzio, avvenuta nel 1520, Giulio ne ereditò – tramite testamento, assieme al collega Giovan Francesco Penni (1488 – 528) col quale collaborò per un lungo periodo – la bottega con tutti gli incarichi da evadere per le committenze. Romano si occupò perciò subito (1520-1524) di coordinare i lavori per la decorazione di Villa Madama e di portare a compimento la già iniziata sala di Costantino delle Stanze Vaticane, di cui gli vengono assegnate diverse raffigurazioni, come ad esempio la “Battaglia di ponte Milvio” e la “Visione della croce”.
Dalle Vite del Vasari si ricava che, tra i suoi vari soggiorni di lavoro e di ricerca c’è da inserire quelli di Pozzuoli, Napoli e varie zone dello stesso regno, al seguito di dignitari pontifici di origine locale.
Secondo M. Ulino [L’Età barocca dei Grimaldi di Monaco nel loro Marchesato di Campagna, Giannini Editore, anno 2008, Napoli], il Pippi (altro nome di Giulio Romano) poté contemporaneamente studiare elementi classici della cultura greca e latina, che tanto appaiono in modo evidente nelle sue composizioni.
Dopo la collaborazione ai lavori con il suo celebre maestro (si ricorda, ad esempio, la decorazione del cortile di Palazzo Branconio a L’Aquila), arrivarono da Roma le prime importanti committenze di progetti autonomi di architettura: la Villa Lante sul Gianicolo per Baldassarre Turini da Pescia (dal 1518 al 1527), il palazzo Adimari Salviati (iniziato nel 1520) ed il Palazzo Maccarani Stati (dal 1521 al 1524). Nel frattempo l’umanista-letterato Baldassarre Castiglione, che si trovava nella capitale come ambasciatore di Federico Gonzaga di Mantova (allora marchese e futuro duca), indicava a questi Giulio come un ottimo artista di corte. Quest’ ultimo non accettò subito l’invito ma volle prima portare a termine i lavori che Raffaello aveva lasciato in sospeso. Nel 1524, nonostante i prestigiosi sviluppi della sua carriera artistica romana, decise di porsi al servizio nella corte della città lombarda. Come primo incarico si occupò della completa ricostruzione della villa di Marmirolo, a cui seguì la realizzazione di un casino alla periferia della città (una piccola isola sul Mincio allora chiamata Teieto, da cui l’abbreviazione odierna “Te”), dove il marchese Federico aveva le sue scuderie, per “accomodare un poco di luogo da potervi andare e ridurvisi tal volta a desinare, o a cena per ispasso” [dalle Vite del Vasari]. L’artista realizzò un maestoso edificio (attualmente Museo Civico di Palazzo Te) a metà tra il palazzo e la villa extraurbana, chiamando presso il cantiere, per le decorazioni pittoriche, numerosi pittori, tra cui si ricorda Raffaellino del Colle (1495 – 1566), uno degli ultimi discepoli diretti del grande maestro urbinate.
L’impegno che il Pippi dedicò a Palazzo Te, durò una decina di anni ad iniziare dal 1525. Frequenti e pesanti furono le pressioni del marchese per una più spedita realizzazione. Il 2 aprile del 1530, all’artista veniva affidata la regia di una festa in onore dell’imperatore Carlo V, ospite di Federico II (già diventato duca), che si tenne nelle stanze e presso i cortili di Palazzo Te.
Nel 1526 venne nominato prefetto delle fabbriche dei Gonzaga e “superiore delle vie urbane”. Queste conferivano a Giulio Romano la sovrintendenza a tutte le produzioni artistiche della corte (dipinti, scultore e architetture) permettendogli di portare avanti un vastissimo cantiere, improntato a una fastosa opera decorativa, orientata al gusto della meraviglia, integrate con ingegnosa bizzarria. Tutto questo ebbe vistosi influssi anche nella già sviluppata cultura manierista delle corti d’Oltralpe.
Più tardi all’artista fu affidata la ristrutturazione del Palazzo Ducale dove realizzò anche il cortile della Cavallerizza ed alcune opere pittoriche.
Nel periodo 1530-40, dovette occuparsi di numerosi piccoli e grandi progetti, atti alla trasformazione della città secondo le ambizioni ducali.
Dalle Vite del Vasari risulta che Giulio Romano diventò un uomo ricco e potente. Infatti il suo stato economico gli consentì la realizzazione di un proprio palazzo (attualmente “Casa di Giulio Romano” in via Carlo Poma n° 18) nel centro di Mantova.
Più tardi fu chiamato in Vaticano come primo architetto della fabbrica di S. Pietro ma la morte, sopraggiunta nel 1546, gli impedì di svolgere tale importante compito.
Fu sepolto nella Chiesa di San Barnaba e la sua salma risulta dispersa dal 1737, quando, durante i lavori di ristrutturazione, la sua tomba fu profanata e distrutta.
Fonti: http://www.frammentiarte.it/2014/giulio-romano – https://it.wikipedia.org/wiki/Giulio_Romano#cite_note-1
Giovan Battista di Jacopo (Firenze, 18 Marzo 1495 – Fontainebleau, 14 Novembre 1540), meglio conosciuto come Rosso Fiorentino, nacque a Firenze il 18 marzo 1495. Fu uno dei massimi esponenti degli “eccentrici fiorentini”, appellativo che bene calzava ai pionieri del Manierismo quale lui era. Per molti anni frequentò la bottega di Andrea del Sarto ma molto spesso si ribellava ai canoni classicisti, adottati dal suo maestro, che già da tempo mostravano cenni di cedimento. Partendo dalle equilibrate strutture compositive di quella scuola, spesso ne trasfigurava le forme manifestando la sua vera indole, abbastanza irrequieta.
Esiste un documento in cui si attesta che il pittore nacque a Firenze in data 18 marzo all’ottava ora nell’anno 1494 (secondo il calendario pisano, che corrisponderebbe al 1495 gregoriano), nel popolo di San Michele Visdomini.
Nel maggio dello stesso anno, nei sobborghi della vicinissima Empoli, nasceva Jacopo Carrucci (Pontormo), artista con cui Rosso Fiorentino passò gran parte del periodo formativo condividendo fatiche e risultati, spesso di straordinaria originalità.
L’appellativo di “Rosso” derivò certamente dal tono fulvo dei suoi capelli, come riportato sulle Vite del Vasari, dove, all’inizio della biografia, veniva ricordato come persona di bell’aspetto, raffinata e gentile, dotata di charme, interessato a più attività, tra le quali la letteratura e la musica [Marchetti Letta, cit., p. 6]. È risaputo che il grande storico dell’arte si basò, oltre che sui ricordi raccolti dal Bronzino, su una sua conoscenza diretta del pittore in gioventù [Marchetti Letta, cit., p. 7].
Il primo documento a noi arrivato, relativo al Rosso, datato 1510, ci indica che all’età di soli quindici anni egli era già un qualificato pittore. Altra testimonianza a noi pervenuta è una ricevuta di pagamento del 13 settembre 1513 in cui all’artista, all’epoca diciannovenne, veniva pagato il primo dipinto di cui si ha notizia, realizzato in collaborazione con Andrea di Cosimo Feltrini (Firenze, 1477 – Firenze, 1548). Trattasi di un importantissima committenza, uno stemma di Leone X (Firenze, 1475 – Roma, 1521) alla Santissima Annunziata in onore del papa mediceo eletto pochissimi mesi prima. Poco più tardi seguirono altri due pagamenti per l’esecuzione pittorica di altri stemmi.
Nello stesso periodo prese parte alla realizzazione di una cera con l’immagine votiva di Giuliano de’ Medici, allora duca di Nemour, per lo stesso santuario della Santissima Annunziata. Si pensa che con tale gesto la famiglia de’ Medici abbia voluto solennemente ringraziare la Madonna per la riconquista di Firenze, dopo la restaurazione repubblicana. Ancora uno stemma – questa volta realizzato per il cardinale Lorenzo Pucci, appena eletto – venne pagato tra l’ottobre e il novembre dello stesso anno. Tra quella data e il giugno dell’anno successivo si registra il pagamento per la prima opera totalmente autografa a noi pervenuta: l’ “Assunzione della Vergine” nel Chiostrino dei Voti [Natali, cit., p. 17]. Probabilmente tale importante committenza pervenne su indicazione di Andrea del Sarto, che in quel periodo stava dipingendo gran parte delle lunette di quel chiostro. Lo stesso Andrea affidò ai suoi migliori assistenti – Franciabigio, Pontormo e, per l’appunto il Rosso – la realizzazione delle restanti lunette [Natali, cit., p. 17]. Il particolare legame che il Rosso aveva con il santuario dell’Annunziata, secondo il Vasari, derivava dall’amicizia col frate “Maestro Giacopo”, ma risulta anche che l’artista avesse due fratelli frati, uno dei quali (Filippo Maria) esercitante la propria funzione all’Annunziata (l’altro era domenicano in Santa Maria Novella) [Natali, cit., p. 17].
Per il “Maestro Giacopo”, sempre secondo il Vasari, l’artista realizzò una “Madonna con san Giovanni Evangelista”, andata perduta, della quale si pensa esista un’antica riproduzione nel Musée des Beaux-Arts di Tours, nella quale il Bambino viene raffigurato di spalle, in un’articolata torsione verso il fruitore dell’opera: la sintesi stilistica delle forme si avvicina più alla pittura di Fra’ Bartolomeo che a quella di Andrea del Sarto [Natali, cit., p. 17]. Ancora il Vasari lo ricorda come uno degli artisti che studiò il cartone di Michelangelo, rappresentante la Battaglia di Cascina, pittore che senza dubbio influenzò gran parte della successiva generazione, compreso il Rosso, che ancor più brutalmente in tale occasione evidenziava il distacco dalle forme e cromatismi tradizionali [Natali, cit., p. 24]. Lo storico aretino ricordava anche un tabernacolo realizzato per i Bartoli nella zona di Marignolle, in cui il pittore incominciava a manifestare “certa sua opinione contraria alle maniere”. L’opera, recentemente rintracciata (la pubblicazione risale al 2006) da Antonio Natali ha come soggetto una Madonna sul poggio del Santo Sepolcro con ai piedi un Cristo morto sorretto da san Girolamo e Giuseppe d’Arimatea. Si trova attualmente in pessimo stato di conservazione ma con ampie zone ancora leggibili [Natali, cit., p. 24]. In quel periodo il Rosso, che nelle Vite del Vasari viene ricordato come un artista “con pochi maestri”, pare che riscontrasse eguale interesse verso le tre scuole locali di quel periodo: quella di San Marco con Fra’ Bartolomeo e Albertinelli, quella dell’Annunziata con Andrea del Sarto e, probabilmente anche quella di Francesco Granacci (Villamagna di Volterra, 1469 – Firenze, 1543). I rapporti di collaborazione con Andrea del Sarto vengono ricordati soltanto in qualche accenno dello storico aretino, come ad esempio nel caso della predella dell`Annunciazione di San Gallo, andata perduta, dipinta insieme al Pontormo [Natali, cit., p. 27]. Inoltre qualche rapporto collaborativo dovette esserci anche con Alonso Berruguete, un’eccentrico pittore spagnolo che in quel periodo soggiornava a Firenze [Marchetti Letta, cit., p. 7]. Comunque il Rosso si smarcò dall’apprendistato nel 1517.
Fonte: http://www.frammentiarte.it/2016/0-01-biografia-rosso-fiorentino/
Francesco Salviati (Firenze, 1510 – Roma, 1563) La sua prima educazione pittorica ebbe come modelli Michelangelo e Andrea del Sarto, poi, in seguito a un viaggio a Roma nel 1531, si avvicinò alle novità di Raffaello, con alcune opere come gli affreschi con le Storie di san Giovanni Battista a Palazzo Salviati, la Visitazione dell’oratorio di San Giovanni Decollato e l’Annunciazione di San Francesco a Ripa caratterizzate da un ampio modo architettonico di suddividere le scene tipico della maturità del maestro di Urbino, ma anche da torsioni delle figure e panneggi svolazzanti tipica dei classicisti come Giulio Romano e il Penni, e da un’attenzione al disegno sempre incisivo tipico della tradizione fiorentina.
A partire da queste caratteristiche stilistiche nel periodo successivo della sua opera il suo stile si fa più decorativo e calligrafico, con linee sinuose e piene di forza che creano un effetto irreale e fiabesco, come nelle eleganti Storie di Furio Camillo nella Sala delle Udienze a Palazzo Vecchio (1544) o nei disegni per alcuni arazzi per lo stesso palazzo, oggi agli Uffizi. Si ritiene che questa evoluzione sia maturata dalla studio di opere del Parmigianino che ebbe occasione di studiare durante un suo soggiorno in Emilia nel 1539.
Successivamente propese per una pittura sì elegante, ma anche robusta, come nei coevi lavori di Bronzino, come nella Carità degli Uffizi o nella Deposizione per il refettorio di Santa Croce, o in alcuni famosi ritratti (Ritratto di Poggio Bracciolini alla Galleria Colonna di Roma, Ritratto di ignoto agli Uffizi). Si vedono in queste opere anche le inquietudini del più tipico stile manierista, in linea con i risultati analoghi di Pontormo e di Rosso Fiorentino. Le Tre Parche nella Galleria Palatina rivelano l’adesione ai modi di Michelangelo, a cui fu a lungo attribuita la tavola.
Viaggiò spesso a Roma, risiedendovi quasi continuativamente tra il 1548 e il 1563, e lavorando a numerosi affreschi, come quelli delle Nozze di Cana nell’Oratorio dei Piceni o la Natività del Battista nell’Oratorio di San Giovanni Decollato, nel Palazzo della Cancelleria (Cappella del Pallio), nel Palazzo Sacchetti (Storie di David) e nel Palazzo Farnese (Fasti farnesiani). Tra gli sviluppi stilistici si riscontra in questo periodo un maggior accentramento delle figure nelle composizioni, con un maggiore volume e plasticismo dei corpi, che acquistano uno straordinario decoro aristocratico, influenzandosi reciprocamente con il suo collega e amico Giorgio Vasari.
Fu proprio Francesco Salviati, con Giorgio Vasari a recuperare i tre pezzi del braccio del David di Michelangelo che era stato danneggiato durante i tumulti del 1527 per scacciare i Medici dalla città di Firenze. Solo nel 1543, con un restauro finanziato da Cosimo I Medici, il braccio fu ricomposto. (R. Della Torre, Vita di Michelangelo, Arnaud, Firenze, 1990)
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Salviati